Salute
12 Maggio 2021
In occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere hanno deciso di portare la propria testimonianza maturata all’interno delle varie attività dell’Azienda Usl di Ferrara

La pandemia vista dagli occhi degli infermieri

di Redazione | 5 min

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Da sinistra dall’alto: Giovanni Ciciola, Elisa Grassilli,Sara Gilli, Paolo Agnelli, Sara Bertoli e Morena Benini

Non chiamateli eroi. Durante la pandemia hanno subito il peso fisico ed emotivo dell’emergenza, hanno riorganizzato il proprio lavoro giorno dopo giorno tra percorsi ‘sporchi’ e ‘puliti’, hanno lavorato bardati di tutto punto, hanno rafforzato il gioco di squadra in team, hanno visto da vicino storie toccanti e hanno toccato con mano la fugacità della vita. Ma la passione e la professionalità erano in prima linea anche prima del Covid, anche prima della narrazione eroica dell’ultimo anno.

Parliamo degli infermieri che oggi, in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere del 12 maggio, hanno deciso di metterci la faccia e la voce per portare la propria testimonianza maturata all’interno delle varie attività dell’Azienda Usl di Ferrara.

Giovanni Ciociola, 48 anni, ha passato gli ultimi 18 anni alla Lungodegenza Post Acuzie Geriatrica Riabilitativa – meglio conosciuta come Lpa – all’ospedale del Delta. “Sono diventato maggiorenne in questo reparto – sorride Giovanni -, dove sono cresciuto tanto professionalmente e umanamente”.

Specie nel rapporto con i pazienti: “L’empatia è fondamentale nell’interazione con il paziente anziano per capire i suoi bisogni a livello olistico. Spesso, dietro a un rifiuto o a un delirium, si nasconde un disagio psicologico che non va sottovalutato. Per questo è importante la formazione che, insieme alla sensibilità, permette di costruire un forte rapporto di fiducia”.

In tempo di Covid, “l’attenzione nei confronti dei pazienti è aumentata – racconta Ciociola – perché bastava uno sguardo per comprendere la loro solitudine. Siamo eroi? Ci guardano con occhi migliori, ma noi abbiamo fatto solo il nostro lavoro. Mi ricordo che una signora mi ha ringraziato tantissimo per averle fatto fare una videochiamata con sua mamma. Due giorni dopo era sotto ossigeno ed è morta. Lì ho capito davvero cosa fosse il coronavirus, un virus insidioso che non perdona”.

Un virus che ci ha sconvolto la vita e, suo malgrado, ci ha dato una lezione. “Cosa mi ha insegnato la pandemia? A non dare nulla per scontato. La vita è una cosa preziosa: l’ho sempre pensato, lavorando in Ps, ma ora più che mai ho realizzato che è una grande verità”. A parlare è Elisa Grassilli, infermiera di 49 anni in pianta stabile al Pronto Soccorso dell’ospedale di Cento.

Insieme ai suoi colleghi – “siamo diventati ancor di più una squadra perché l’unione nelle difficoltà permette di affrontare tutto” confida Elisa – ha vissuto situazioni “estremamente difficili” ma poi le procedure di vestizione, la nuova riorganizzazione in spazi ristretti e tutte le altre misure di contenimento da adottare “sono diventate la normalità, anche se finalmente vediamo un miglioramento”.

“Essere chiamati eroi fa piacere ma è una considerazione che andrebbe fatta sempre: è un lavoro faticoso dal punto di vista fisico e mentale ma viene spesso sottovalutato. Cerchiamo di dare sempre il massimo con disponibilità e gentilezza ma non è sempre facile perché i ritmi di lavoro sono frenetici, soprattutto in un settore di emergenza come il nostro”.

“La gente si è accorta della fatica del nostro lavoro, ma abbiamo fatto quello che facevamo prima, la differenza è che siamo stati con i riflettori puntati come se fossimo degli eroi” conferma Sara Gilli, 29 anni, in servizio alla Medicina Covid del Santissima Annunziata.

Sotto la divisa, ha assistito all’evoluzione della pandemia dai “pazienti che necessitavano di ossigeno terapia semplice fino a dover utilizzare le macchine con i caschi per la ventilazione non invasiva. Ho visto scene che stringono il cuore. E lì ho capito che la vita corre sul filo, solo che non ce ne rendiamo conto”.

Lo sa bene anche Paolo Agnelli, 47 anni, che dal reparto Tim – Terapia Intensiva Multispecialistica all’ospedale del Delta ha visto “il lavoro stravolgersi. È molto provante fisicamente (basti pensare a un intero turno bardato senza neanche poter bere un sorso d’acqua) ed emotivamente, specie quando incontri coetanei attaccati al respiratore che non accennano a migliorare”.

Fortunatamente da fuori non si vede quello che vediamo noi: la gente si lamenta della quarantena, dei tamponi, del coprifuoco… li capisco, ma noi vediamo quelli che stanno male davvero, pazienti intubati, familiari che non possono avere contatti per settimane se non mesi. In tanti anni non ho mai visto cose del genere, sono esperienze che segnano molto. Continuo a fare il mio lavoro con passione, con ancor più consapevolezza sull’importanza dell’aspetto relazionale”.

“L’impatto è molto duro” conferma Sara Bertoli, 39 anni, passata in un anno da una casa famiglia alla Medicina del Delta fino alle Usca – Unità Speciali di Continuità Assistenziale dell’ospedale di Argenta. “Come funziona? Insieme a un medico faccio visite domiciliari a casa dei pazienti per controllare parametri vitali ed eventuali necessità a livello globale. È un approccio più rapido e diretto in un’atmosfera familiare”.

Il servizio dell’Unità Mobile si trasforma invece in un momento di educazione: “Quando andiamo a domicilio a fare i tamponi, ci trasformiamo anche in educatori perché i pazienti rivolgono tante domande sui comportamenti corretti da tenere in quarantena. Comunque sono riconoscenti di quello che facciamo perché l’idea di essere gestiti a domicilio li tranquillizza molto”.

L’insegnamento parte dal senso di comunità: “Spero che le persone si rendano conto che se ognuno facesse la sua parte ne usciremmo prima. Anche noi come professionisti riusciremmo a fare meglio il nostro lavoro e tornare alla normalità senza tutti questi alti e bassi”.

Una “valorizzazione del ruolo degli infermieri, con tanto di creazione di figure nuove per servizi nuovi come infermieri Usca e screening” vissuta anche dalla case manager Morena Benini, 57 anni, trasferita dalla Casa della Salute Cittadella San Rocco all’hotel Covid Astra per gestire i pazienti positivi che non avevano la possibilità di fare l’isolamento a domicilio e quindi dovevano aspettare la negativizzazione in albergo.

“La difficoltà non sta tanto nell’accoglimento quanto nel supporto psicologico a chi rimane chiuso in una stanza anche per mesi” racconta Morena che, anche per affrontare il caso dei due fratellini in quarantena, ha sentito più forte “l’integrazione tra servizi come arma vincente. E nonostante i sacrifici, anche per la mia famiglia che è stata messa in secondo piano, la fatica viene ripagata”.

Integrazione rafforzata anche con i medici di Medicina Generale per le vaccinazioni anti-Covid in Cra e Adi. “Anche adesso che siamo vaccinati – conclude Morena, a nome di tutti i colleghi – dobbiamo dare l’esempio e non abbassare la guardia. La pandemia mi ha insegnato che gli sguardi e le parole possono essere determinanti, non dimentichiamocelo mai”.

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